Comarò vol. 2 – In conversazione con Bianca Bagnarelli

Sabato 15 marzo si è tenuto a Schio il secondo appuntamento di Comarò, la piccola rassegna sul fumetto che sto curando per Casa Capra. L’ospite del giorno era Bianca Bagnarelli, giunta eroicamente da Bologna nonostante il maltempo. Di seguito potete leggere una trascrizione della nostra piacevolissima chiacchierata – condensata quanto possibile, per esigenze editoriali. 

VALERIA: Grazie Bianca per essere qui. Oggi parliamo del tuo libro “Animali domestici”, uscito qualche mese fa per Coconino Press. Un’antologia, una raccolta di racconti che hai scritto e disegnato nell’arco di dieci anni, tra 2013 e 2024. Questo libro è qualcosa di speciale per chi conosce il tuo lavoro, perché contiene delle storie apparse finora soltanto all’estero, in lingua inglese, oppure uscite come autoproduzione, ma mai ristampate. Cosa provi a vedere finalmente pubblicato questo libro? E per Coconino poi, che so esserti molto caro come editore di fumetti, dato che in catalogo ha numerosi dei tuoi autori preferiti.

BIANCA: Prima di tutto grazie a tutti voi per essere presenti e grazie a te e Saverio per l’invito. È stato stranissimo, pubblicare questo libro. L’anno scorso ho passato mesi a rileggere le mie vecchie storie, dopo anni. Rileggere se stessi può essere terribile, soprattutto se è passato tanto tempo: saltano agli occhi errori, imprecisioni. Mi sono immersa in una versione, anzi più versioni di me che non esistono quasi più. Pubblicare con Coconino però è stato bello, penso non lo avrei fatto con nessun altro editore italiano. Quando avevo 18-19 anni andavo in fumetteria e compravo i loro libri quasi di default, a scatola chiusa, tanto sapevo che mi sarebbero piaciuti. Poter essere oggi nel loro catalogo è una cosa bella, un altro piccolo sogno che si avvera. Sono contenta.

V: Com’è nata l’idea di farlo, questo libro? Li hai contattati tu oppure ti hanno chiesto loro di farlo?

B: Ho appena detto che non avrei potuto farlo che con loro, ma [ride] la realtà è che mi era stato proposto da un altro editore, cioè Rulez. Chiara Palmieri mi aveva contattato anni prima, chiedendomi di fare questo libro. Io all’inizio opponevo resistenza, ma alla fine lei era riuscita a vincere le mie perplessità e avevamo iniziato a progettarlo. Per varie vicissitudini, come accade in questo lavoro, poi non abbiamo concluso, ma mi era rimasta “nella pancia” l’idea di questo oggetto fisico, che rendesse le storie permanenti. Il problema, quando si lavora tanto con le pubblicazioni digitali, è che col passare degli anni di quel lavoro si perde traccia, per cui il fatto di avere un oggetto fisico, un libro, che contenesse quello che avevo fatto mi era rimasto in testa. Ne parlai con Alessandro Tota, gli dissi pure che mi sarebbe piaciuto farlo con Coconino ma avevo paura di non interessargli. Lui mi ha risposto “Sei scema, secondo me il progetto gli piacerà di sicuro”; abbiamo sentito l’editore e alla fine il libro s’è fatto.

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Comarò vol. 1 – In conversazione con Juta

Sabato 22 febbraio 2025 ha inaugurato a Schio (Vicenza) una piccola rassegna sul fumetto che ho avuto il piacere di curare col supporto di Saverio Bonato di Casa Capra e la libreria Quivirgola. Il primo ospite di Comarò è stato Juta (Simone Rastelli), arrivato direttamente da Roma.

Non era la prima volta che accoglievamo Juta a Schio. Qualche anno prima, nel 2021, era venuto qui in occasione dell’uscita del suo primo libro a fumetti “Bambino Paura” (edito da Rizzoli Lizard). Mentre organizzavamo Comarò, è stato naturale pensare a lui come primo ospite. Anche per una questione di buon auspicio alla rassegna. Quella che leggerete di seguito è una trascrizione della nostra piacevolissima chiacchierata – condensata quanto possibile, per esigenze editoriali. 

VALERIA: Sono passati alcuni anni dall’ultima volta che sei stato qui a Schio per presentare “Bambino Paura”. Ora torni per parlarci della tua ultima fatica, “Gatto Pernucci”, pubblicato con Coconino Press la scorsa primavera. Vorrei iniziare con una domanda, che penso sia quella che ci siamo poste tutte dopo aver letto il fumetto: come ti è venuta l’idea di creare un personaggio come Gatto Pernucci, già iconico dal primo momento in cui è apparso disegnato su un foglio?

JUTA: Gatto Pernucci è nato in un momento molto specifico. Ero a casa con il Covid, nel 2021. Era più o meno Natale e io avevo appena disegnato questa storia, che se volete possiamo rileggere assieme.

[Sullo schermo dietro di noi viene proiettata la storia presente sul suo sito Spezzoni: potete leggerla anche voi qui]. 

È la prima volta che la leggo ad alta voce. Questa storia è nata così, improvvisando. Io avevo i capelli lunghi, ero a casa con una vestaglia che lavavo gli spinaci, e avevo il Covid.

V: E il nome? Non tanto “Gatto”, ma “Pernucci”?

J: Non esiste credo il cognome Pernucci. Avevo un amico di infanzia che di cognome faceva Bernucci. E poi mi è capitato di conoscere dei Pennucci. Ma Pernucci si è manifestato così: diciamo che è pure piacevole da pronunciare. Già ora lo abbiamo nominato una decina di volte, penso che per la fine della presentazione avremo raggiunto il centinaio.

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Dentro e fuori dall’armadio. Storia dei coming-out di Eleanor Crewes

È più difficile entrare nel closet o uscirne? Scoprire la propria omosessualità o dichiararla? Nel suo memoir a fumetti Tutte le volte che ho scoperto di essere gay (Diabolo Edizioni), Eleanor Crewes racconta di aver impiegato anni prima di riuscire a fare i conti con la sua identità di giovane lesbica, inanellando durante l’università una serie di tentativi poco convinti di uscire allo scoperto.

Quando era bambina adorava Buffy l’ammazzavampiri, in particolare il personaggio di Willow, che fa coming-out nella quarta stagione. Passava il tempo disegnandola e cercando di replicare i suoi look. Sprofondava il naso nei libri che raccontavano storie di fantasmi, ascoltava gruppi musicali sconosciuti fiera della propria stranezza e del suo gruppo di amiche fidate. Crescendo era diventata più insicura: la terrorizzavano i pettegolezzi e si sentiva schiacciata dalla pressione di conformarsi e dover per forza baciare qualche ragazzo, uscirci e farlo sapere al mondo.

Era sempre stata consapevole di provare un forte senso di differenza rispetto alla norma a cui era stata socializzata, ma le mancavano gli strumenti adatti a descriversi, così aveva finito col respingere sentimenti e orientamento sessuale “scomodi” ai margini della sua vita sociale (“Era come se qualcuno mi avesse consegnato una lettera da tenere al sicuro, ma non potessi aprirla fin quando non fosse arrivato il momento giusto”). Solo verso la fine dell’adolescenza, quando ignorare il metaforico armadio che prendeva forma attorno a lei era diventato impossibile, aveva abbracciato l’esperienza del coming-out, che però non si era risolto in un unico spettacolare evento rivelatorio, ma in tanti brevi momenti di lucidità intermittente.

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Con “Transformer” Nicoz Balboa abbraccia la sua identità transgender

La società in cui viviamo fatica a decostruire e contrastare i pregiudizi di matrice storica e culturale che riguardano le diverse identità di genere. A causa della tossicità di queste idee e la violenza che spesso le accompagna non sorprende che alcune persone provino vergogna, senso di colpa e altre emozioni negative quando considerano la possibilità di essere trans*. La verità è che il genere è una bellissima parte di sé e merita amore e rispetto. Abbracciare la propria identità e avere il coraggio di comunicarla a coloro che sono più vicinə può essere un gesto estremamente potente. Sapere quando o come dichiararsi può essere spaventoso, ma anche molto liberatorio se si è dispostə a farlo.

“Sei una sirena con questo culo e questi fianchi”, “Sì, ma una sirena maschio”. Play with fire, seconda opera di autofiction di Nicoz Balboa, uscita nel 2020, si concludeva con una conversazione cruciale tra Nicoz e lə suə compagnə non-binary Stef. Giunto all’apice della sua disforia, Balboa si disegnava schiacciato tra la pressione di conformarsi alle tradizionali aspettative di genere femminile, la paura di non sapere se la sua relazione sarebbe sopravvissuta ad un eventuale coming-out e la necessità di uscire dall’ombra ed essere sincero con se stesso e ciò che provava. Un tuffo nel profondo blu metteva la parola fine a un momento di grande sofferenza.

Transformer riparte esattamente da qui, dal profondo del mare. Uscito questa settimana per Oblomov, il volume – attesissimo da coloro che seguono l’attività di journaling di Nicoz online e non vedevano l’ora di poterlo ritrovare su carta – racconta il coming out di Balboa come uomo trans e l’inizio del suo percorso di transizione. Un viaggio costellato di imbarazzi, dubbi, delusioni ma anche orgoglio, tenerezza e intimità, narrato con il consueto mix di dramma e umorismo che caratterizza i lavori dell’autore romano, francese d’adozione.

Come le sue precedenti opere, Transformer si presenta come un diario disegnato, con tanto di date, note a margine e testi che corrono per tutta la tavola con continui cambi di lettering, parti acquerellate e parti inchiostrate, sbavature; fuori da ogni schema – in tutti i sensi. Vi è però una differenza rispetto ai titoli che l’hanno preceduto: Transformer si apre con una premessa. Balboa si raffigura sulla pagina bianca mentre spiega che “alcune cose raccontate nel libro sono accadute, altre sono inventate. Cosa è vero e cosa no è irrilevante ai fini della storia”. Sarà inoltre utilizzata la schwa (ə) per riferirsi nella maniera più inclusiva possibile alle persone che compaiono nella storia. È un’intro che eccheggia la rottura della quarta parete di Alison Bechdel – uno degli spiriti guida di Balboa, menzionata anche all’interno del volume – che nei suoi fumetti autobiografici era solita rivolgersi al pubblico per accoglierlo nelle proprie storie.

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Questioni di principio: The Contradictions di Sophie Yanow

Dopo aver letto The Contradictions di Sophie Yanow per l’ennesima volta mi sono chiesta se l’amicizia abbia o meno un potenziale radicale. Dopotutto, il modo in cui concepiamo la politica ha un effetto sul tipo di amicizie che stringiamo, viceversa il modo in cui intendiamo l’amicizia può influenzare la nostra pratica politica. La linfa vitale dell’attivismo, il motore che alimenta la lotta alle strutture alienanti che ci separano e ci allontanano, non sono forse i sentimenti di lealtà e solidarietà della sua rete? Organizzarsi, coinvolgere e mobilitare altrimenti non sarebbe possibile: è quando le persone hanno forti legami emotivi, si sentono a proprio agio, apprezzate e incluse, che diventa più facile collaborare e ispirarsi a vicenda mentre si persegue una causa comune.

È altrettanto vero, però, che vivere secondo i propri ideali è maledettamente faticoso. Nonostante il duro lavoro e dell’impegno, si possono commettere errori, o peggio, si può finire per contraddirsi. È grave? Io credo che l’attivismo perfetto e inflessibile non esista, quindi mi verrebbe da rispondere di no. Ostinarsi a inseguirlo non può che portare ad un fallimento, col rischio di farne magari una malattia. Il problema è che quando si lavora in gruppo e si agisce in gruppo è facile sentire la pressione del pensiero unico, lasciare che voci altrui si levino sopra la propria, zittendo ogni dubbio o volontà di mettere in discussione ciò che non ci sembra giusto. Quando queste dinamiche si frappongono tra noi e la nostra comunità può succedere che il potenziale amicale di cui sopra venga meno e i rapporti si indeboliscano; nascano conflitti interiori, discussioni, ci si allontani pure.

Sophie Yanow, che in gioventù ha sperimentato sulla sua pelle – come dice lei stessa – una “interessante dissonanza” tra le filosofie che le sue conoscenze di sinistra le avevano fatto conoscere e i modi in cui queste persone tentavano poi di implementarle nelle loro vite, insomma tra teoria e pratica, realizza questo fumetto ripensando al suoi tormenti del passato, per capire in che modo sono stati decisivi nella sua formazione politica e personale.

The Contradictions è una storia di formazione incentrata su un’amicizia imperfetta, tra personaggi imperfetti. La protagonista, Sophie, ha vent’anni e studia arte. Decide di volare a Parigi sfruttando l’ultimo scampolo del suo prestito studentesco per allontanarsi il più possibile dalla sua ex, dai corsi di teoria critica e ritrovare se stessa. Una volta arrivata, fatica a fare amicizia fino a quando non incontra Zena, coetanea che condivide la sua passione per le biciclette a scatto fisso e la politica radicale. Zena la introduce al pensiero anarchico e l’illegalismo e finalmente il suo disperato bisogno di comunità sembra appagato. Le due passano il tempo parlando della Comune di Parigi e di cibo vegano e durante le vacanze di primavera decidono di fare il loro primo viaggio insieme, in autostop, verso Berlino e ritorno. Nel corso della loro avventura Sophie si troverà a mettere in discussione i propri ideali, oltre all’entusiasmo iniziale per la visione del mondo di Zena. Diventerà presto evidente che non basterà la politica a tenerle unite.

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Vittime e combattenti. Ecco le “Moms” di Yeong-shin Ma

Il fumettista sudcoreano Yeong-shin Ma ha vissuto a casa dei suoi genitori per trent’anni prima di potersi permettere una sistemazione indipendente. Non aveva un gran rapporto con sua madre e come molti giovani adulti nella sua situazione, si sentiva assillato dalle sue infinite richieste. Una volta trasferito, però, si è rapidamente reso conto dei sacrifici e del lavoro di cura che lei svolgeva per mandare avanti la casa. Nel tentativo di sdebitarsi e intuendo di avere ancora molto da imparare da lei, le ha comprato un costoso taccuino chiedendole di riempirlo con tutto quello doveva sapere sulla sua vita, senza risparmiarsi dettagli dolorosi e crudi. Quello che la madre gli ha restituito meno di un mese dopo è diventato la base per Moms, il suo primo fumetto tradotto in lingua inglese.

Pubblicato da Drawn&Quarterly nel 2020 e ancora inedito in Italia, Moms è un fumetto audace e travolgente incentrato sulla storia di un gruppo di donne di mezza età, frustrate dalla mediocrità dei loro compagni e dei loro stipendi. Donne della classe operaia, capitanate dalla divorziata Lee Soyeon (personaggio modellato sulla madre dell’autore), che si fanno strada a colpi di ariete tra pervertiti o truffatori che le usano per sesso o denaro e si rifiutano di usare mezzi termini per amore della cortesia.

Nonostante la sessualità delle cinquantenni venga per lo più ignorata dalla narrazione mainstream, Moms non lesina sui dettagli della vita romantica di Soyeon e delle sue amiche. Yeong-shin Ma sfida le norme della tradizionale narrativa familiare coreana, che vorrebbe relegare le donne di una certa età nei ruoli di madri affettuose e senza nome, per raccontare con onestà la storia di coloro che desiderano qualcosa di più di ciò che le loro vite possono offrire. Donne che come chiunque altro cercano l’amore e la felicità, e si aggrappano alle loro speranze e ai loro sogni per ottenerli.

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Niente inviti speciali, niente pubblicità. La Georgia O’Keeffe di Colaone e De Santis

Quando Georgia O’Keeffe si è spenta nella sua residenza di Santa Fe, Nuovo Messico, era il 1986 e lei aveva 98 anni. Anche se ormai da qualche tempo aveva smesso di dipingere a causa di una degenerazione maculare legata all’età, con l’aiuto di diversi assistenti aveva lavorato alle sue tele fino all’ultimo, attingendo alla sua vivida immaginazione e alla memoria. O’Keeffe fu un’importante pittrice del secolo scorso ed è meritatamente considerata un’icona del modernismo americano, ma in Europa non venne mai realmente riconosciuta come tale fino a tempi recenti. Lei stessa d’altronde mise piede per la prima volta nel Vecchio Continente soltanto nel 1953, all’età di 65 anni; e Londra ospitò la prima mostra a lei dedicata soltanto nel 1993, postuma.

Per questo, quando il Centre Pompidou ha annunciato che nel 2021 avrebbe ospitato la prima retrospettiva francese su di lei, la notizia ha avuto enorme risonanza. L’imponente mostra del museo parigino comprendeva un centinaio di dipinti, disegni e fotografie e dispiegava cronologicamente la lunga traiettoria artistica di O’Keeffe. La curiosità suscitata dall’evento era tangibile: lunghe code, insolite nei giorni feriali, si dipanavano davanti al Centre (dopo la sua chiusura, la mostra sarebbe stata trasferita alla Fondation Beyeler di Basilea, in Svizzera, con un ulteriore successo di pubblico).

Curiosamente, fu proprio in quell’occasione che vennero arruolati Luca de Santis (sceneggiatura) e Sara Colaone (disegni) per realizzarne una biografia a fumetti. I due, com’è noto, condividono un felice sodalizio artistico da oltre una decina d’anni e i loro libri sono conosciuti e tradotti in numerosi paesi stranieri. Dall’unione delle forze del loro editore francese – Steinkis – e il Centre Pompidou è nato allora Georgia O’Keeffe, Amazone de l’art moderne, graphic novel poi arrivato anche in Italia via Oblomov, nella primavera del 2022.

Trovo che i fumetti a quattro mani di Colaone e de Santis siano una macchina narrativa perfettamente oliata, magnifici nella loro chiarezza e apparente semplicità. Non ho paura di sbilanciarmi dicendo che li annovero tra le mie letture di conforto: in fondo ho scelto il loro Ariston (2018) per la prima recensione di questo blog, e non potevo che accogliere con ottimismo l’annuncio della loro nuova fatica. Sarebbero riusciti a riprodurre l’intensità narrativa, la sottile ironia e l’accuratezza storica mai didascalica dei precedenti Leda (2016) e In Italia sono tutti maschi (2008)?

O’Keeffe divenne famosa contro ogni previsione. Seppe farsi strada in un ambiente dominato dai maschi e rifiutò categoricamente di essere valutata solo sulla base del suo essere donna. Basterebbe questo a renderla candidata ideale alla posizione di femminista, direbbe qualcun, non fosse che lei rifiutò sempre di essere etichettata come tale e mantenne una posizione ambivalente riguardo ai movimenti delle donne. Nel fumetto di De Santis e Colaone – fortunatamente – non si forza in alcun modo l’interpretazione politica della sua parabola artistica e privata, ma ci si concentra sull’energica mescolanza di arte, infedeltà, distanza, malattia e successo che caratterizzarono la sua esperienza. Senza lesinare sulle contraddizioni di cui fu punteggiata.

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Dritto per dritto. Il biopic in salsa Fabio Tonetto

Chissà se le persone che l’hanno letto converranno con me quando dirò che Dritto per dritto di Fabio Tonetto è l’autobiografia di un cane che si ritrova a tirare le somme della propria vita, dopo aver interrotto i legami con la sua famiglia e aver sperimentato un breve successo come artista di strada. Si potrebbe obiettare che il sottotitolo “Una fiaba a quattro zampe” lo connoti semmai come la storia di un cagnolino ribelle, che rifiuta le convenzioni che lo vorrebbero sempre su due zampe, dritto e composto come un umano, e se ne va in giro facendo dispetti da quadrupede. Oppure, se si guarda l’incipit (“Ieri notte ho fatto un sogno”), si potrebbe leggerlo come il racconto di una serie di apparizioni mentali, in cui il personaggio protagonista percorre in lungo e largo l’elemento onirico, per confessarsi.

Queste interpretazioni sono probabilmente tutte ugualmente corrette e ragionevoli. D’altronde è dai tempi di “Ren Rocchi” prima e “Rufolo” poi, che Tonetto ci concede la libertà di armeggiare di fronte alle sue serrature narrative con generosi mazzi di chiavi di lettura, osservando da lontano i nostri sforzi con timido sollazzo. Io, nel mio piccolo (blog), preferisco attenermi alla versione più drammatica, forse per una questione anagrafica. Vedo il libro come un racconto di formazione, in grado di svelare la genesi interiore del cambiamento vissuto dall’animale protagonista per mezzo di piccole scene/gag.

Dritto per dritto inizia effettivamente con un sogno ambientato la notte di Natale, emblematica ricorrenza in cui tutti – animali compresi – ci lasciamo andare a bilanci emotivi. La voce narrante è del cane protagonista, che non riesce a vivere serenamente il ritrovo con la famiglia. Ha la sensazione che le sue azioni e interazioni sociali non siano adeguate, che commetterà un errore e rovinerà l’atmosfera. Ma soprattutto che suo fratello minore riceva un trattamento di favore (“Sembrava mi provocassero, mentre con mio fratello erano sempre tranquilli”).

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Laudano e vecchi merletti: Vision e l’horror secondo Julia Gfrörer

Una volta qualcuno ha detto: “Indie horror comics are the scariest thing!” riferendosi al fatto che a) i fumetti possono spingere la narrazione dell’orrore verso vette precluse agli altri media, facendoci accapponare la pelle e provocandoci alti livelli di ansia e raccapriccio tramite disegni da cui non possiamo sottrarci e b) i fumetti indipendenti risultano spesso più audaci e perturbanti rispetto, ad esempio, al molle cinema di genere mainstream (senza offesa).

Quel qualcuno era Ezra C. Daniels, scrittore e illustratore americano, autore di Upgrade Soul e BTTM FDRS. Stava scherzando, ma non aveva tutti i torti. Julia Gfrörer, che era presente mentre lo diceva, intanto rideva sotto i baffi. Il suo ultimo libro Vision è un horror nato per l’appunto come autoproduzione a puntate (poi raccolto in volume unico da Fantagraphics) che racconta in maniera magistrale i silenziosi orrori della mente umana. Una storia dove amore e dolore si intrecciano al punto che è difficile distinguerli. Ricco di suspance, eros e sovrannaturale, io l’ho letto poco dopo la sua uscita americana, nel 2020, ma ogni anno ad ottobre mi sento di consigliarla ai palati raffinati che cercano nuove letture per Halloween.

Siamo a New York, diciannovesimo secolo. La protagonista è Eleanor che dopo la morte del fidanzato si ritrova a vivere nella vecchia magione di famiglia assieme al fratello e alla moglie malata e nevrotica. Accudisce a malincuore l’esigente cognata e gli unici momenti che dedica a sé sono quelli in cui si reca dal medico per correggere i problemi alla vista, da tempo offuscata. Frustrata e infelice, Eleanor cerca nel segreto della sua camera una fuga dalla sua miseria, prima tagliandosi le braccia e poi instaurando una relazione incorporea, voyeuristica e masturbatoria con uno specchio che immagina parlarle con la voce di un amante fantasma. Poco per volta piccoli misteri e squilibri iniziano a sommarsi, fino a fornire un ritratto sempre più cupo di un’anima tormentata.

Gfrörer, che viene considerata a giusto titolo una delle fumettiste più promettenti della sua generazione, conosce molto bene la materia del gotico e sa di poterlo utilizzare come strumento di critica sociale. Mettendo in contrapposizione la vita di Eleanor così com’è e così come lei la immagina/vorrebbe riesce a raccontare il crollo mentale di una donna causato dal malsano immobilismo familiare e dalle soffocanti restrizioni che la società vittoriana imponeva alle donne.

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Fendente. Uno squarcio aperto sull’adolescenza

Terrificanti, cruenti, controversi, iconici. Alcuni dei momenti più memorabili della storia del cinema provengono dai film horror del sottogenere slasher, dove i protagonisti vengono cacciati e uccisi in maniera violenta da qualche maniaco omicida. Avete presente l’apparizione di Leatherface in Non aprite quella porta? Jamie Lee Curtis che si nasconde nell’armadio in Halloween? L’inseguimento nel bosco con Robbi Morgan in Venerdì 13? La telefonata prima della tragica morte di Drew Barrymore in Scream? Dagli anni Settanta in avanti, l’influenza di queste pellicole sull’immaginario collettivo ha rapidamente trasceso i confini statunitensi per toccare ogni parte del globo. Incluso il nord della Francia, dove viveva il timido e introverso Antoine Maillard, che quand’era adolescente questi titoli li divorava (“Je suis un enfant de la vhs”). Questo interesse giovanile gli tornerà utile molti anni dopo – terminata l’EESI di Angoulême – per la creazione di una storia inquietante e oscura: quella di Fendente, suo esordio a fumetti pubblicato in Italia da Coconino Press e vincitore del premio per il miglior fumetto “crime” al Festival di Angoulême 2022.

Nella tragica sequenza di apertura del libro, due liceali muoiono per mano di un uomo misterioso che le colpisce a morte con una mazza da baseball. L’indomani i loro corpi vengono ritrovati nel campo della scuola, nello sgomento generale della piccola comunità. La tv parla di un assassino non identificato, che indossa un bomber sportivo e un cappello col frontino. Nel corso dell’opera la tensione di saperlo ancora a piede libero si intreccerà con le reazioni degli adolescenti coetanei delle vittime: gli inseparabili Dan, Pol, Ralf e la figlia del professore di matematica, Laurie.

Daniel (“Dan”) è un timido nerd occhialuto, vessato dalla madre iperprotettiva. Pola (“Pol”) è figlia incolpevole di una madre alcolizzata, considerata da tutti un maschiaccio per il modo in cui veste e lo spirito caparbio e irrequieto con cui affronta la vita. Ralf è un ragazzino piuttosto naif, appassionato di videogiochi, che si limita a stuzzicare gli altri due. Fuori dal triangolo, Laurie, che è in terapia per curare uno stress post-traumatico di cui non riusciamo inizialmente a cogliere la causa.

Mentre la maggior parte dei giovani in città non vorrebbe fare altro che continuare ad uscire con gli amici, bere e fumare in santa pace, questi quattro adolescenti sfuggono alla comprensione dei propri genitori, beatamente inconsapevoli di quello che sta accadendo. Condividono un disagio più o meno radicato, insieme a una certa sete di ribellione. Col progredire della storia diventa evidente come siano loro il principale oggetto di interesse di Maillard. Più degli omicidi o del movente dell’assassino: quali sono i cambiamenti che questa “presenza” scatena nelle vite dei protagonisti?

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