How to Stay Afloat. Quando la quotidianità è una lotta
Costruirsi una vita, al di fuori della malattia mentale, è un percorso intenso e complesso, fatto di passi avanti, passi indietro e ancora avanti. La chiamano “recovery”, ed è come una corrente che spinge. Spinge a prendere coscienza dei propri limiti e spinge ad assumersi delle responsabilità per migliorare la qualità della propria vita e viverla più positivamente. Non guarire, quella è un’altra cosa. Diciamo più riappropriarsi della propria identità personale e sociale, tornare a divertirsi e ridere nonostante i disturbi di cui si sta soffrendo.
Tara Booth nei suoi lavori parla esattamente di questo. Pittrice e fumettista, ha iniziato a pubblicare i suoi lavori nel 2015, dopo aver finito la Scuola d’arte della natia Philadelphia. Nelle sue tavole racconta la convivenza con l’ansia cronica e la depressione utilizzando colori e pattern a profusione; sono tavole piene di carattere, spiritose, goffe, assurde. Una quotidianità incasinata e imbarazzante, abbracciata con l’orgoglio di chi sa che l’esperienza sofferente ha valore e per questo merita di essere riconosciuta, sia pure come diversità.
How to stay afloat – Surnager au quotidien è uscito nel 2018 per la small press francese Arbitraire Editions, ed è una sorta di manualetto per affrontare l’esistenza che riprende il precedente How to be alive (uscito per Retrofit e vincitore del premio Ignatz come miglior fumetto nel 2018) e aggiunge un extra di venti pagine con nuovi particolari autobiografici.
Dal tagliarsi la frangia da sola al cercare i calzini giusti nel delirio del cassetto, passando per episodi di forte dissociazione e paura che i complimenti ricevuti nascondano in realtà l’ostilità e il disprezzo dell’interlocutore. Impossibile non provare un’istantanea vicinanza affettiva, durante la lettura. Tara Booth mette se stessa su una pagina dicendo “eccomi qua, col mio bagaglio di difetti e disfunzionalità, voi come state?”
Si ha l’impressione di essere persino sue amiche, tanto ci si sente investite dalla sua vulnerabilità. “Prendere gli elementi della mia vita che mi fanno sentire persa o fuori controllo e riuscire a renderli una sciocchezza attraverso la pittura [mi ha] aiutata a trasformare alcune delle mie emozioni negative”, disse a It’s nice that nel periodo in cui si iniziava a parlare di lei come fenomeno virale.
Non che la grandezza di un’artista si misuri dai social, ma è comunque rilevante ricordare che il suo profilo Instagram è seguito da 100 mila persone: una community enorme con cui Tara Booth condivide il suo disagio esistenziale, una rappresentazione tutt’altro che edulcorata e glamour della malattia mentale o della dipendenza. Al contrario è brutta, scomoda, molesta, ma proprio per questo universale e in grado di creare un legame sincero con il pubblico. I suoi fan infatti ricordano spesso che i lavori di Booth hanno per loro una funzione catartica; riescono a sentirsi meno imbarazzati di loro stessi, delle loro crisi e debolezze, vedendo che “là fuori” c’è qualcuno che ha il coraggio di mostrare il vero volto del trauma e delle abitudini negative.
Pur essendo una fine disegnatrice, Booth ha scelto di abbandonare ogni canone imposto dall’Accademia che aveva frequentato e abbracciare con fierezza uno stile più primitivo, ferale, quasi naif. Il suo disegno è veloce, libero, le sue gouache compulsive ma precise.
Cita tra le sue fumettiste preferite Gabrielle Bell e Vanessa Davis, e le artiste Misaki Kawai, Mogu Takahashi, Katherine Bernhardt. Molte sono autodidatte: “Ho sempre amato la grossolanità e la genuina onestà nel disegno degli autodidatti. Di mio, ho abbandonato le reference fotografiche e iniziato a disegnare utilizzando la memoria.”
Del suo background di pittrice ha però conservato l’abitudine a considerare la tavola singola come spazio in cui far coesistere inizio, sviluppo e fine di ciascuna storia. Così, come in una cronofotografia di Muybridge o lo storyboard di una sequenza animata, tutte le azioni compiute dalla sua protagonista sono rappresentate contemporaneamente nello spazio del foglio. E data l’assenza del testo (utilizzato poco, o comunque con molta parsimonia) pensieri e parole sono trasmesse dalle espressioni del viso e del corpo, da simboli e dettagli più o meno evidenti posizionati sullo sfondo.
Dopo una lunga battaglia con l’alcool, un anno fa ha smesso di bere di punto in bianco, finendo col rendersi conto di avere però altre dipendenze irrisolte. Il suo percorso di “recovery” ha incluso a quel punto anche una cura presso una struttura di riabilitazione, di cui ha parlato ai suoi fan senza timore. È anche grazie a questo tipo di candore che possiamo imparare a riconoscere dignità ai modi in cui le persone provano a sentirsi meglio: “È terapeutico e confortante sapere che ci sono tante persone che stanno passando le stesse cose. Più riescono a ridere del mio lavoro, più mi sento anche io spronata a farlo!”.
Note:
• In Nocturne, il suo libro uscito sempre nel 2018 per 2nd Cloud, esprime il suo punto di vista in materia di desiderio, libertà sessuale, kink e consenso.
È un’ulteriore chicca da recuperare.
• Il suo ultimissimo libro è uscito pochi giorni fa. S’intitola Things to do instead of killing myself (lo pubblica Floating World Comics). Tara l’ha scritto e disegnato assieme a Jon Michael Frank, amico fumettista e poeta, nella speranza di poter promuovere un dialogo più neutrale e aperto sulla salute mentale, libero da stigma e vergogna.
• Nelle interviste dice spesso che non è più abituata ad uscire di casa per far festa, e che non può neanche permettersi gli outfit che le piacciono. Per questo si consola vestendo i suoi personaggi con i pattern e i colori più disparati. È una sorta di gioco! Se vi piacciono però i suoi disegni e state pensando di farci una maglietta o un pantalone, tranquilli che Rock Soup vi ha già preceduto.