Università e pecore. Il privilegio al servizio degli altri

La vita di Don Lorenzo Milani è stata un’avventura breve, fulminante. Prete schierato dalla parte degli ultimi e voce di grande radicalità del clero fiorentino, Lorenzo credeva fortemente nella parola come strumento di libertà e nella scuola come strumento di apostolato. Morì nel 1967 a soli 44 anni, lasciando dietro di sé un’eredità spirituale e una testimonianza pedagogica enormi. In molti hanno provato ad afferrare, analizzare e trasmettere il suo insegnamento, con il passare degli anni. Tra questi contributi, l’uscita più recente ed interessante porta la firma di una fumettista: la pisana Alice Milani, che del sacerdote è niente meno che pronipote.

Università e pecore – edito da Feltrinelli Comics – è infatti una combinazione di fonti orali e scritte, di memoria e aneddotica famigliare, prima ancora che studio sui libri e le lettere scritte dal prozio per raccontare le sue battaglie, i desideri e i grandi ideali. Alice Milani ricostruisce il carattere del protagonista partendo dai racconti “di casa” di sua nonna Maria Teresa, per attraversare con curiosità e stupore le pagine scritte durante i quindici anni di sacerdozio.

Sposata con Adriano Milani, fratello di Lorenzo, Maria Teresa ha più di 90 anni e una gran voglia di chiacchierare. Tra sigarette e Campari, lei e Alice spettegolano e rievocano il passato con dialoghi degni delle migliori pagine di Rutu Modan e Marjane Satrapi (“Lorenzo aveva la mia età, era del ’23. Fosse stato un pellaccia come me sarebbe ancora vivo. Poveretto”). Una cornice narrativa che non invade la biografia di Lorenzo ma è semmai funzionale a mostrare il contrasto tra gli agi della famiglia nobile da cui proveniva e l’opposto delle scelte che fece in seguito.

È questo approccio inedito alla figura complessa e multisfacettata di Don Lorenzo, che rende il libro una piacevole eccezione nel panorama attuale delle biografie disegnate. Quello di Alice è un Lorenzo Milani battagliero, ostinato e contrario, appassionato e profondamente coinvolto in quello che fa e dice (motti ne aveva tanti, ma il più significativo era “I care”, ho a cuore/mi interessa, opposto del “Me ne frego” fascista).

Lorenzo Milani aveva origini ebraiche da parte di madre ed era erede di una delle più ricche e colte famiglie di Firenze, i Milani Comparetti (tutt’oggi una famiglia della borghesia universitaria: i genitori della stessa Alice, citati nel libro, sono professori). Studiò a Milano al Liceo Classico e all’Accademia di Brera, prima di maturare la decisione di entrare in seminario, sconvolgendo la sua famiglia perfettamente agnostica e secolarizzata. Ormai però era tardi: aveva preso coscienza dello stato di privilegio in cui viveva e trovato nella fede la sua vera vocazione. In numerose lettere dirà di aver vissuto vent’anni nelle tenebre, senza un Dio in cui credere. Convertito vero, il suo desiderio sarà applicare alla lettera il Vangelo.

Il suo primo incarico fu a Calenzano, nella periferia di Firenze. Iniziò ad insegnare già qui, creando una scuola serale che accoglieva giovani operai e contadini, comunisti e democristiani assieme. Partiti politici tra i quali infiammavano all’epoca polemiche accesissime. Racconterà quel periodo nel libro Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958 e poi ritirato dal commercio per volere della Santa Sede che non approvava la radicalità delle sue critiche, soprattutto quella che rimproverava alla Chiesa di essere avulsa dal contesto sociale di quel periodo ed aver perso i contatti coi fedeli.

Considerato di grande disturbo, tra le altre cose per aver spinto i lavoratori ad impegnarsi nel Sindacato, Don Lorenzo fu mandato in esilio a Barbiana, una parrocchietta di cento abitanti, senza strada, corrente elettrica, acqua corrente. Appena arrivato notò una cosa: l’unica scuola era costituita da una “pluriclasse” che finiva alla 5a elementare. I ragazzini non avevano possibilità di proseguire con gli studi oltre quel limite. Lo Stato, che avrebbe dovuto garantire fino ai 14 anni l’obbligo educativo, latitava e per questo il priore decise di creare personalmente una scuola diurna. Volle colmare una falla dello Stato. Non si trattava di partigianeria della scuola privata, era piuttosto una necessità.

Niente banchi, né lavagne. Sedie, tavoli e libri e tutti raccolti attorno. Nella “Scuola di Barbiana” come venne presto battezzata, al mattino si studiava il programma ministeriale e nel pomeriggio si leggeva il giornale, si discuteva, si faceva scrittura collettiva. Era una scuola libera. Se passava un visitatore, veniva fatto intervenire (sempre che Don Lorenzo avesse valutato che costui avesse qualcosa da poter dire ai ragazzi).

Come ha ricordato in varie occasioni pubbliche Francesco Gesualdi, un ex alunno: “Il giornale offriva svariate occasioni di dibattito. Su cos’era giusto, cos’era sbagliato. Insomma, la Scuola era vivace e ci insegnava come si poteva attivare il pensiero. Ci forniva gli strumenti, il metodo, per mettere in pratica una formazione permanente”.

La sua scuola di Don Milani era una scuola di liberazione. Perfettamente inserita nel contesto sociale: un contesto duro, dove si lavorava dalla mattina alla sera. A Barbiana gli adulti erano tutti mezzadri, contadini di montagna che non possedevano niente se non la loro prole. Coltivano una terra, certo, che però non era loro ma “del Padrone”. In cambio del lavoro (non contrattualizzato) ricevevano il minimo indispensabile per sopravvivere. Don Lorenzo facendo scuola non voleva creare fratture all’interno della famiglia; il suo messaggio era più simile a: “i tuoi genitori sono a faticare nei campi, e tu lo fai sui libri”. La Scuola era severa: aveva il tempo pieno, pienissimo. 365 giorni, 366 nei giorni bisestili. Don Lorenzo sapeva che i suoi ragazzi avevano il tempo contato; a 15 anni avrebbero iniziato a lavorare, quindi bisognava pensare, leggere, studiare più che si poteva.

Chi chiede ai ragazzi di Barbiana, ora diventati tutti distinti signori, se si erano mai stancati dello studio e dell’impegno scolastico che Don Lorenzo proponeva a loro, rispondono unanimi che no, si stava bene alla scuola di Barbiana. L’alternativa era il lavoro nei campi e non c’era proprio paragone. “La scuola è meglio della merda”, scriveranno nel celebre esperimento di scrittura collettiva e “libretto rosso” della sinistra anticlericale Lettera a una professoressa.

L’università e le pecore citate nel titolo derivano da una lettera (mai completata) che Lorenzo scrisse ad un amico magistrato per descrivere questi due mondi che la cultura separava: la famiglia secolarmente universitaria dei padroni e la famiglia secolarmente analfabeta dei mezzadri, lo stile di vita della prima mantenuto grazie alle fatiche della seconda. “Loro hanno frequentato tutte le scuole e si son riempiti la casa di libri e la mente di potenza dialettica e pratica enorme senza aver mai bisogno di guadagnarsi il pane” perché il pane lo guadagnavano i pecorai e i loro bambini, messi a forza lavoro.

Per Don Milani, la scuola era classista, “fatta su misura dei ricchi”. Uno strumento che serviva a sottolineare le differenze e ad aumentare ulteriormente il divario tra ricchi e poveri, quando invece il sapere è un diritto e dovrebbe spettare a tutti.

Le parole dei suoi scritti sono le vere protagoniste del fumetto: oggi conservano ancora una grandissima forza, per questo Alice Milani le ha adattate per farle sembrare dialoghi. Non è lei che fa parlare Lorenzo, è lui che parla in autonomia di quanto è critico e insoddisfatto delle storture del sistema. Don Lorenzo sarebbe potuto diventare uno scienziato o un medico, invece scelse di stare con i poveri a lottare per loro. Privilegiato per la cultura che aveva ricevuto, decise di metterla a servizio di chi non aveva avuto la stessa fortuna, insegnando una lingua che poteva “rendere uguali” e trasformarli in persone consapevoli e capaci di rivendicare i propri diritti. Uscirne tutti insieme è la politica, uscirne da soli è l’avarizia.

Università e pecore è un fumetto importante perché ci parla di politica, prima ancora che di religione; di attivismo, prima ancora che di spiritualità. Per 160 pagine di colori puri e accesissimi, e tratto nero, diretto, Alice Milani ci mostra gli esiti della sua indagine su questo parente lontano e inafferrabile e la sua famiglia privilegiata, offrendoci uno spaccato del nostro paese personalissimo e insieme obiettivo, lucido. Racconta la storia di un uomo che è anche la storia di un popolo parlandoci di classe, di antifascismo, di cultura, di costituzione, di democrazia, di responsabilità civile. Ci ricorda che abbiamo una testa da utilizzare, prima che ce la rubi qualcun altro.

Le emozioni e le stilettate sono talmente tante che io non son riuscita a contenere le lacrime, mentre completavo la lettura. Voglio consigliarvelo, infine, perché ho apprezzato l’eleganza con cui l’autrice ha lasciato tra le pieghe del testo alcuni piccoli riferimenti alla condizione femminile del Dopoguerra, tra mariti fedifraghi e matrimoni senza amore. Perché quella degli anni Cinquanta e Sessanta era sì un’Italia in piena trasformazione, ma con i piedi ancora ben piantati nello status quo a vantaggio degli uomini.


Note:

• Non è la prima volta che l’autrice racconta col fumetto le vite altrui: si era già dedicata a Winslawa Szymborska (2015) e Marie Curie (2017), entrambe vincitrici di premi Nobel, in due volumi usciti per Beccogiallo. Del secondo trovate una mia vecchia recensione su Soft Revolution!

• Alice è attualmente Direttrice editoriale di “Rami”, la collana di fumetti di fiction di Beccogiallo. Tra i titoli che ha curato c’è anche Malibu di Eliana Albertini.

• Per avere un assaggio di come gli ex alunni di Barbiana parlano della Scuola, qui trovate un bel contributo di Francesco Gesualdi.

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